Avv. Pasquale Sangregorio
La Cassazione, negli ultimi anni, è stata più volte chiamata in causa per esprimersi su una questione particolarmente complessa, ossia, quella inerente la configurabilità dell’istituto dell’Usucapione in ambito condominiale.
Va innanzitutto premesso che, sebbene il codice civile non fornisca una definizione di condominio, esso si distingue dall’istituto della Comunione (disciplinato dall’art. 1100 e seguenti del c.c.) principalmente per la presenza nell’edificio di parti ad uso esclusivo e parti ad uso comune di cui tutti i condòmini sono comproprietari. Costoro, quindi, possono servirsi delle parti comuni anche per propri fini particolari, purchè, non si alteri la destinazione dello stesso bene e non sia compromesso il pari diritto spettante agli altri condòmini. Di conseguenza, essi sono altresì tenuti a partecipare a tutte le spese di gestione e manutenzione delle stesse in virtù dei valori a loro ascritti indicati nelle tabelle millesimali.
Il novellato articolo 1117 del codice civile, peraltro, fornisce un nutrito elenco, anche se non esaustivo, di tutte le parti dell’edificio che devono ritenersi di uso comune.
Fatte le dovute premesse, possiamo dedicarci alla questione che qui interessa: è possibile acquisire per usucapione alcune parti comuni dell’edificio? Il condomino che per anni utilizzato una parte del cortile, può agire in giudizio per ottenere il riconoscimento dell’avvenuta usucapione se gli altri condòmini hanno semplicemente tollerato tale situazione? Nel corso degli anni, la Cassazione, più volte chiamata a pronunciarsi, si è espressa in senso favorevole seppur con qualche precisazione fondamentale.
Appare opportuno ricordare che, nell’ambito dei modi di acquisto della proprietà a titolo originario previsti e disciplinati dal codice civile, l’articolo 1158 prevede che l’acquisto dei beni immobili e degli altri diritti reali di godimento per usucapione si configura a seguito del possesso continuato per almeno 20 anni. Inoltre, è altresì necessario che il possesso ventennale sia continuo ed ininterrotto, non esercitato in modo violento e clandestino, palesando quindi la volontà di subordinare la cosa al proprio potere.
Ciò detto, la Sesta Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 18651/2017, a conferma di quanto affermato più volte in passato, ha ribadito che l’istituto dell’usucapione può configurarsi anche in ambito condominiale. Tuttavia, gli Ermellini hanno precisato che, a differenza dell’usucapione ordinaria, in ambito condominiale, dove le parti comuni appartengono a tutti i condòmini, “… non è sufficiente che gli altri partecipanti alla comunione si siano astenuti dall’uso della cosa comune o abbiano tollerato o concesso che uno dei partecipanti alla comunione ne abbia fatto un uso esclusivo, essendo invece necessaria la sussistenza di una condotta da parte di uno dei comproprietari che realizzi l’impossibilità assoluta per gli altri partecipanti di proseguire un rapporto materiale con il bene e, inoltre, denoti inequivocamente l’intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva “uti dominus” e non “uti condominus”, sicché, in presenza di un ragionevole dubbio sul significato dell’atto materiale, il termine per l’usucapione non può cominciare a decorrere ove agli altri partecipanti non sia stata comunicata, anche con modalità non formali, la volontà di possedere in via esclusiva”. Da ciò emerge chiaramente che, nella realtà dei fatti, non è affatto facile usucapire parti comuni di un edificio in regime di condominio. In effetti, ritornando all’esempio precedente, il condomino interessato ad usucapire il una parte comune, dovrebbe interdire l’accesso all’area interessata, ad esempio attraverso l’installazione di un cancello, il tutto con il benestare degli altri condòmini. A rendere ancora più difficile le cose, in conclusione, merita altresì di essere citata la Sentenza n. 20039/2016 della Cassazione, per mezzo della quale, la Seconda Sezione Civile, aveva già affermato che il condomino che in giudizio deduca di aver usucapito la cosa comune “…deve dimostrare una condotta diretta a rivelare in modo inequivoco che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso, costituito da atti univocamente rivolti contro i compossessori, e tale da rendere riconoscibile a costoro l’intenzione di non possedere più come semplice compossessore, non bastando al riguardo la prova del mero non uso da parte degli altri condomini, stante l’imprescrittibilità del diritto in comproprietà…”.